Cosa vuol dire sviluppo sostenibile?
Se nei magnifici Anni Cinquanta, in pieno boom economico italiano, qualcuno avesse parlato di sviluppo sostenibile, invitando tutti a ridurre i consumi ed evitare gli sprechi di risorse preziose, avrebbe probabilmente suscitato lo stupore generale. Erano i tempi del dopoguerra, della crescita produttiva, di un ottimismo basato su desideri finalmente realizzabili.
Oggi, in uno scenario globale totalmente diverso, la sostenibilità ambientale viene invocata a gran voce da ogni parte: se ne parla come di una necessità per la produzione industriale e per quella agricola, così come in ogni tipologia di servizi, fino ai consumi domestici quotidiani. Eppure, sebbene possa sembrare figlio degli ultimissimi anni, questo concetto etico ha iniziato a prendere forma quasi mezzo secolo fa, subito dopo quel boom di crescita che pareva inarrestabile.
Risale infatti al 1972 il Rapporto sui limiti dello sviluppo (così tradotto dall’originale Limits to growth, cioè Limiti alla crescita), commissionato al MIT di Boston (Mussachussets Institute of Technology) dal Club di Roma (http://www.clubofrome.org/), associazione no-profit fondata nel 1968 proprio nella capitale italiana. Attraverso un modello di simulazione al computer, il documento ipotizza le conseguenze della crescita costante della popolazione sull’ecosistema della terra e l’impossibilità da parte del pianeta di sostenere indefinitamente lo sviluppo economico, a causa della limitata disponibilità di risorse naturali, soprattutto energetiche. Unica speranza, rallentare il ritmo, ricorrendo a fonti energetiche rinnovabili invece di quelle fossili (come il petrolio), prima di raggiungere quei “limiti dello sviluppo” oltre i quali il declino dell’umanità diventerebbe irreversibile.
La Terra, allora, è davvero limitata? Il Rapporto sui limiti dello sviluppo (aggiornato nel 1992 e poi nel 2004), pur facendo discutere il mondo intero, alla sua pubblicazione viene considerato eccessivamente allarmista. Una teoria interessante, insomma, da prendere molto con le pinze.
Ma il sasso nello stagno era stato gettato, e nel 1987 la Commissione mondiale su ambiente e sviluppo, costituita cinque anni prima all’interno delle Nazioni Unite, torna sull’argomento nel cosiddetto “Rapporto Brundtland” (Our Common future) che prende il nome dall’allora presidente della Commissione. E lo fa coniando la prima definizione condivisa di sviluppo sostenibile, a cui si fa riferimento anche oggi: «Uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Inoltre, «uno sviluppo sostenibile non deve apportare danni ai sistemi naturali che costituiscono la base della vita sulla terra, vale a dire l’atmosfera, le acque, il suolo e gli esseri viventi». Se fino a quel momento la crescita (del Pil, della produzione, dei consumi…) era stata considerata l’unica via di progresso per un Paese, inizia a farsi strada un’altra visione dello sviluppo, che dice basta allo sfruttamento indiscriminato delle risorse e alle forti sperequazioni sociali, per puntare sulla conservazione.
Cos'è l'impronta ecologica?
La definizione del Rapporto Brundtland viene ripresa dalla Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo dell’Onu(l’importante “Summit della Terra”), che richiama a Rio De Janeiro, nel 1992, 172 governi e 108 capi di stato, gettando le basi per |